Abbiamo bisogno di lavoratori competenti o di cittadini critici?

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Sulla scia di numerosi paesi europei, la Comunità Belga Francese si è impegnata in una profonda revisione dei programmi a tutti i livelli dell’insegnamento obbligatorio. L’obiettivo sbandierato è di rendere tali programmi conformi alla dottrina del così detto “approccio per competenze”.
La tesi qui sostenuta è duplice. Da una parte quest’approccio sarà incapace di realizzare le promesse d’emancipazione delle quali si vuole che esso sia portatore. Dall’altra, e soprattutto, esso partecipa – senza dubbio involontariamente nella testa dei suoi teorici – di un vasto processo di strumentalizzazione della Scuola al servizio di un’economia in cerca di deregolamentazione e di dualizzazione sociale.

Traduzione : Giovanni Galli

Del concetto di competenza esistono tante definizioni quanti sono gli autori che hanno scritto sul soggetto. Se dovesse servire una prova dell’estrema flessibilità di questa nozione – e conseguentemente delle modalità con cui viene messa in atto – eccone una. Nei testi emanati dalla Comunità francese, la definizione più corrente è quella adottata Romainville e compagni: «una competenza è un insieme integrato e funzionale di sapere, saper-fare e saper-divenire, che permette, di fronte a una vasta categoria di situazioni, di adattarsi, di risolvere problemi e realizzare progetti» [BERNAERDT, ROMAINVILLE, et. all].

La dottrina detta de «l’approccio per competenze» è volta essenzialmente a mettere le competenze al centro delle preoccupazioni dell’insegnante. E questo, ci viene detto, in opposizione a «l’ampliamento delle conoscenze». Tale approccio non è dunque riducibile ad una pedagogia: esso integra chiaramente una determinata visione degli obiettivi dell’insegnamento. A questo titolo esso è, d’altronde, parte integrante del decreto della Comunità francese sulle “Missioni dell’insegnamento dell’obbligo”.
Tuttavia, l’approccio per competenze implica anche un certo tipo di approccio pedagogico, dato che esso raccomanda di mettere in linea le pratiche di insegnamento con il nuovo obiettivo: in quanto capacità di risolvere dei problemi, la competenza non può che acquisirsi mettendo il «discente» – soggetto del proprio apprendimento in opposizione all’allievo, presunto passivo – «nella condizione» di far fronte a problemi di un dato tipo, affinché esso si eserciti a «mobilizzare» il proprio saperi e saper-fare in determinate categorie di situazioni concrete.

Questa pratica non è scevra dal presentare qualche similitudine con quelle proposte dalle scuole pedagogiche del movimento costruttivista. Anche qui si insiste spesso sul ruolo attivo dell’allievo e sulla necessità di metterlo «nella condizione di ricerca» grazie alla messa in atto di “cantieri di problemi”. Vedremo comunque più avanti che la somiglianza si ferma qua.

Un progetto generato dagli ambienti economici

I pensatori dell’approccio per competenze non nascondono la stretta filiazione della loro dottrina dalla recente evoluzione dei tentativi e dei discorsi del mondo economico in materia d’insegnamento. Così, per Romainville e per i suoi co-autori, «ognuno si aspetta dalla scuola che essa non si acconti di un apporto formale di contenuti, non corrispondente più di fatto nè alle aspettative dei giovani nè alle richieste del mondo economico» [BERNAERDT, ROMAINVILLE, et. all]. Per Jean-Marie De Ketele, «è in effetti il mondo socio-economico che ha determinato la nozione di competenza, perchè gli adulti che la scuola ha formato non erano sufficientemente adeguati ad entrare nella vita professionale» [DE KETELE 2000].

François Perrenoud, che figura tra i maestri di pensiero dell’approccio per competenze, ci rassicura certamente quanto al fatto che tale approccio sarà «riduttore per fare dell’interesse del mondo scolastico per le competenze, il semplice segno della sua dipendenza dalla politica economica». Egli non riconosce di meno l’esistenza di “una giunzione tra un movimento dall’interno e un richiamo dall’esterno. L’uno e l’altro si nutrirebbero di una forma di dubbio sulla capacità del sistema educativo di rendere le nuove generazioni capaci di affrontare il mondo di oggi e quello di domani.» [PERRENOUD 2000, b].

Quale sarebbe dunque questo «mondo di oggi»?

Il nostro ambiente economico è caratterizzato da due elementi: un’estrema instabilità e una forte dualizzazione sociale. L’instabilità genera dall’inasprimento delle lotte concorrenziali, dalle ristrutturazioni, dalle chiusure e delocalizzazioni che ne risultano, dal ricorso accelerato alle più effimere innovazioni tecnologiche (tanto nella sfera della produzione che in quella dei consumi). In questo contesto, una delle principali richieste del mondo padronale è quella relativa alla flessibilità: flessibilità del mercato del lavoro, flessibilità professionale e sociale dei lavoratori, flessibilità dei sistemi di educazione e di formazione, adattabilità del consumatore.
Oggi il mercato del lavoro è ancora fortemente regolato sulla base delle qualifiche, quindi dei diplomi. Il diploma è un insieme riconosciuto di saperi e di saper-fare, che risulta oggetto di negoziati collettivi e conferisce diritti in materia di salario, di condizioni di lavoro o di protezione sociale. Per permettere una rotazione più flessibile di manodopera, il padronato cerca ormai di sciogliere questo accoppiamento rigido tra qualifiche e diplomi al fine di sostituirvi la coppia competenza-certificazione modulare. Qui Perrenoud dà prova di una grande lucidità: «Il riferimento alle competenze autorizza una loro costante rivalutazione, alla stregua delle «ristrutturazioni dell’apparato produttivo», del cambiamento tecnologico, dell’organizzazione e della divisione del lavoro. Nel lavoro salariato, l’approccio per competenze permette anche di sciogliere solidarietà statutarie e di individualizzare le ricompense e le carriere aziendali, a pari qualificazione formale. Esso contribuisce a ricomporre la logica delle qualifiche in una duplice logica di valorizzazione e selezione” [PERRENOUD 1999]. Sfortunatamente questa lucidità non costa niente perché ci troviamo precisamente là, in un dominio in cui i due “approcci per competenza”, quello che riguarda la Scuola e che sostiene Perrenoud e quello che riguarda l’organizzazione del mercato del lavoro e che desidera il padronato, non si implicano affatto l’uno con l’altro. Si può perfettamente annullare il diploma senza cambiar niente nell’insegnamento e si può altrettanto facilmente rifondare la Scuola sulla base delle competenze senza toccare il diploma . Focalizzando la similitudine degli approcci su questo punto preciso, Perrenoud ha buon gioco nel pretendere che non si tratti, giustamente, che di una somiglianza e non di una stretta interdipendenza.

Lavoratori flessibili e adattabili

Ma la domanda di flessibilità non si ferma all’organizzazione del mercato del lavoro. Per il lavoratore, l’instabilità tecnologica e industriale si traducono in incessanti cambiamenti dell’ambiente di produzione, del posto do lavoro, dell’impiego se non addirittura della professione. Per assicurare una costante produttività della manodopera è quindi necessario che il lavoratore sia esso stesso dotato di una grande flessibilità. Egli deve aver integrato le competenze che gli permettono di adattarsi a situazioni nuove, di acquisire nuovi saperi sul filo della propria carriera, deve essere disposto ad investire di proprio a tal fine. In breve, egli deve essere in grado di mobilitare sapere, saper-fare e saper-essere per adattarsi e per risolvere problemi complessi e cangianti. Questo è precisamente ciò che si propone di fare l’approccio per competenze nel dominio dell’educazione: «l’allievo dovrebbe essere capace di mobilitare le proprie acquisizioni scolastiche al di fuori della scuola, in situazioni diverse, complesse, imprevedibili» [PERRENOUD 1995 b].
Qui non si tratta più di somiglianza, ma di una reale identità tra gli obiettivi dell’approccio per competenze e i tentativi del mondo economico (identità che, per il momento, ci accontenteremo di constatare senza giudicarla) .
Quando Perrenoud riconosce questa identità, lo fa sulla punta delle labbra, svuotandola del suo carattere storico e perfino con una punta angelica: «il fascino del mondo dell’economia per le competenze non è soltanto sul versante della negazione delle qualificazioni (….). C’è nel mondo dell’impresa, anche se c’è per una necessità ben comprensibile più che per un umanesimo virtuoso, una forma di riconoscimento del lavoro reale e della sua distanza rispetto al lavoro prescritto, una presa di coscienza del fatto che se gli operatori meno qualificati non esprimono nel lavoro intelligenza, creatività e autonomia, la produzione ne risulterà compromessa» [PERRENOUD 2000 a].
Ma questa «presa di coscienza» padronale non cade dal cielo. Essa è il risultato delle mutazioni economiche descritte sopra. Non dirlo permette di non dover spiegare perché il successo dell’approccio per competenze nel campo scolastico coincida storicamente con questi rivolgimenti economici.
Inoltre, egli è abile nel chiamare «intelligenza, creatività, autonomia» le competenze che dovrebbero assicurare la flessibilità e l’adattabilità dei lavoratori. Perché, chi oserebbe contestare che il ruolo della Scuola è di condurre i giovani all’intelligenza, alla creatività e all’autonomia? Ma, così facendo, ci si contenta di nascondere il vero dibattito sotto parole prive di un gran contenuto. Certo, la comprensione del funzionamento di un sistema di guida stradale informatizzata e la presa di decisioni rapide sulla base di informazioni fornite da un computer, in vista di un intrufolarsi tra gli ingorghi per andare a riempire distributori di Coca-Cola ai quattro angoli della città, necessita di determinate forme di intelligenza, creatività e autonomia. Ma a chi si vuol far credere che si tratterà delle medesime forme di intelligenza, di creatività e di autonomia che permettono, per esempio, di capire gli effetti della globalizzazione dell’impresa e dei mercati sulla società per contrastarli?

Dualizzazione del mercato del lavoro

Ora, si dà che nel corso del decennio a venire gli Stati Uniti intendano creare circa 300.000 impieghi nel riempimento di distributori automatici di bevande e alimenti. Più in generale, il 56 % degli impieghi che conosceranno la maggiore crescita numerica negli USA saranno di tipo «short term on the job training» (formazione di breve durata, sull’unghia). Tocchiamo qui un secondo importante aspetto dell’ambiente economico attuale: la dualizzazione del mercato del lavoro che si traduce in una domanda crescente di manodopera altamente qualificata ma anche, paradossalmente, in una massificazione degli impieghi precari a bassissimo livello di qualificazione.
Pertanto, quando Perrenoud cui assicura che l’approccio per competenze «risponde a un’esigenza di efficacia da parte dell’insegnamento, di adeguamento maggiore dell’apprendimento scolastico alle situazioni che si incontrano sulla strada verso il lavoro e fuori dal lavoro» [PERRENOUD 1995 b], vien di fatto di interrogarsi. Per una parte notevole della popolazione, tale “adeguamento” passa per competenze di livello elevato, che implicano conoscenze generali in grado di permettergli effettivamente di utilizzarle come strumento di potere. Ma per un’altra parte, ancora più numerosa, l’ «esigenza di efficacia» e di adeguamento dell’apprendimento «alle situazioni che si incontrano sulla strada verso il lavoro» implica una riduzione a poche competenze di carattere generale – saper leggere, scrivere, fare di conto, comunicare e servirsi di una interfaccia informatica – e sociali – disciplina, autonomia e flessibilità, per esempio.

Quanto gli ambienti economici reclamano oggi, è la razionalizzazione dell’insegnamento in funzione dei loro interessi. Tale razionalizzazione dovrebbe permettere di ridurre i costi complessivi assicurando una maggiore differenziazione e una flessibilità crescente (tanto dello stesso sistema educativo che della mano d’opera da esso prodotta). Questo non è sicuramente l’obiettivo dell’approccio per competenze, almeno nella testa della maggior parte dei pedagoghi che lo difendono. Ma la domanda principale che si pone è di sapere se le loro buone intenzioni non saranno poi riciclate, piegate al profitto di questi interessi mercantili. Bisogna dunque studiare le modalità pratiche della messa in atto di questa dottrina, per analizzare in che misura essa presta il fianco a un tale recupero.

L’abbandono dei saperi

Il primo rischio inerente all’approccio per competenze è lo spostamento del centro di gravità da esso indotto, dai saperi verso i saper-fare. Nella pedagogia dell’approccio per competenze, la messa al lavoro degli allievi su cantieri di problemi non è concepita come un metodo (tra altri) in grado di dare un senso al sapere, permettendo la sua costruzione attraverso o per gli allievi, in grado di restituire tale saperi nella sua storicità e permettendone così una comprensione profonda. La metodologia diviene un obiettivo in sè. Lo scopo non è più sapere, ma saper fare. Questo distingue fondamentalmente l’approccio per competenze dall’eredità delle pedagogie costruttiviste che vanno da Vigotsky, passando per Freinet, fino ai pedagoghi progressisti degli anni ’70 (come quelli del GFEN in Francia). In quel caso il ricorso alla pratica viene messo al servizio dell’acquisizione di conoscenze e, soprattutto, dell’accesso ad una comprensione profonda di queste conoscenze. Invece, nell’approccio per competenze si opera un completo capovolgimento: sono i saperi che sono ormai messi al servizio della pratica metodologica. Perrenoud: «Le competenze non volgono le spalle ai saperi, perchè esse non possono emanciparsene, ma è necessario accettare di insegnare meno conoscenze se si vogliono realmente sviluppare competenze» [PERRENOUD 1999].
Cambiando lo stato, diventando un fine e non più un mezzo, la pratica di «far lavorare sui cantieri di problemi» assume un carattere dogmatico. Sentiamo Perrenoud: «Si impara a camminare camminando, a cantare cantando. Perché si dovrebbe imparare a riflettere, a osservare, a immaginare, a comunicare, a analizzare, a negoziare altrimenti che non praticando tali attività in situazioni molto diverse, dato che la competenze non è legata a un solo tipo di contesto, di situazione o di rapporto?» [PERRENOUD 1999]. Certamente, si impara a camminare camminando. Ma per quanto riguarda il canto già non è più vero, meno ancora se si punta ad un livello elevato. E’ allora necessario passare attraverso vocalizzi, studio del solfeggio, ascolto… attività di apprendimento altrettanto essenziali che non sono canto. L’idea secondo cui l’apprendimento passerebbe essenzialmente per la pratica non è più completamente vera quando si tratti di saperi complessi. Non s’impara a servirsi degli integrali solo calcolando degli integrali, ma assimilando prima sul piano teorico i concetti di funzione, di differenziale, di primitiva, di limite e, infine, di integrale. Qui la comprensione esige un andare e tornare permanente tra la pratica (per scoprire concetti e per sviluppare competenze strumentali) e la teoria (per sistematizzare e passare a livelli di astrazione sempre più elevati).

Questo dogmatismo pedagogico è ben percepibile nei nuovi programmi che arrivano oggi nell’insegnamento secondario francofono e belga. L’approccio per competenze vi domina in modo talmente oltraggioso che si abbandona spesso ogni velleità di una programmazione articolata della materia.
Perrenoud sostiene questa deriva e la legittimizza: «Non si può insegnare per competenze sapendo in agosto di cosa si tratterà a dicembre. Questo dipenderà dal livello e dal coinvolgimento degli allievi, dai progetti che avranno preso corpo, dalla dinamica del gruppo-classe o dei suoi sotto-gruppi. Questo dipenderà soprattutto dagli avvenimenti precedenti, perché le situazioni-problemi ne solleveranno ulteriori. E’ decisamente possibile e sicuramente necessario tagliar corto su certi aspetti e ripartire da tutt’altro punto. Ma non ci si può fermare all’eventualità di costruire tutto l’anno scolastico passo dopo passo, perché una questione ne genera un’altra, un progetto che si compie suggerisce un’altra avventura. Avventura? La parola può sembrare troppo forte trattandosi di un’istituzione anche burocratizzata e obbligatoria (socialmente, se non legalmente) che è la Scuola . E’ quindi proprio di avventure intellettuali che si tratta, di imprese di cui non si conosce in anticipo nulla sull’argomento, in cui nulla, neanche il professore, è mai stato vissuto esattamente nei medesimi termini» [PERRENOUD 1995 c]. Queste parole non mancheranno di sedurre tutti coloro che mordono il freno nelle nostre opprimenti istituzioni scolastiche, L’avventura è accattivante. Ma questo non deve farci dimenticare che essa può anche essere pericolosa. Se alcuni vi troveranno divertimento e profitto, altri rischieranno di perdervisi. Gli uni, gli altri? Come fa Perrenoud a non capire che quelli che ne usciranno bene sono quelli che troveranno altrove quel rigore e quella strutturazione dei saperi che non troveranno a scuola? Come fa a non essere cosciente della frattura sociale che i suoi eccessi pedagogici ci stanno apparecchiando?

Pericoloso perchè impossibile a realizzarsi

Spinto fino al suo obiettivo, fino alla visione estrema idealizzata da un Perrenoud, l’approccio per competenze è senza dubbio difendibile. Ma nelle condizioni attuali di funzionamento della Scuola e della società, esso è impraticabile. Esso pone un obiettivo inaccessibile e inoltre il suo (tentativo) di messa in pratica approderà all’opposto esatto delle finalità ufficialmente perseguite.
Nel lungo estratto che segue, Perrenoud per di più dimostra di essere pienamente cosciente dell’impossibilità pratica di attuare realmente ciò che propone. «Si presentano numerose strategie», dice. «La più conservatrice è di partire dai saperi attualmente insegnati e di cercare di definire delle competenze che potrebbero mobilizzarli. [Queste strategie] aggiungono un verbo di azione alle conoscenze teoriche (per esempio “sapersi servire del principio di Archimede”) [e] si limitano ad agghindare i contenuti abituali degli strumenti di competenza, senza riflessione sulle fondamenta». «Una seconda strategia, continua Perrenoud, consiste nel lasciare i saperi alle discipline e nel definire delle “competenze trasversali”». «La terza strategia è enunciare delle capacità talmente generali che non si sappia nemmeno più se esse siano disciplinari o trasversali: sapere analizzare, argomentare, ragionare, osservare, esprimersi, negoziare sono senza dubbio capacità utili, ma rinviano ad un’enorme diversità di materie, di pratiche e di situazioni».
Perrenoud conclude: «queste tre strategie, per quanto discutibili esse siano, occupano una posizione privilegiata nelle odierne riforme dei programmi in termini di competenze. Esse sono, allo stesso tempo, le meno promettenti e le più probabili». Egli viene dunque a raccomandare di abbandonare, per il momento, queste pericolose riforme? Affatto. Propone di avventarsi verso l’ignoto rassegnandosi in anticipo: «queste modalità prudenti di impugnare i problemi sono probabilmente le sole praticabili, in un primo tempo».

Dualismo sociale della Scuola

Ora, in un contesto di de-finanziamento, di sovraccarico di lavoro, di classi super-popolate, di de-motivazione dei docenti e degli allievi, di crescente dualizzazione sociale, il dogmatismo pedagogico rischia fortemente di volgersi in formalismo. Volontariamente o involontariamente, l’idea che si induce nella testa degli insegnanti è che il metodo è tutto e che l’accesso alle conoscenze diviene secondario, accessorio. Per Perrenoud, «La pratica orientata verso la formazione di competenza esige dallo studente un coinvolgimento molto più forte nell’impresa. Non solo una presenza fisica e mentale effettiva, richiesta tra l’altro sia dagli allievi che dagli insegnanti, ma un investimento che implica immaginazione, ingegno, susseguirsi di idee, etc.» [PERRENOUD 1995 c]. Ma se questo «coinvolgimento» e questo «investimento» fanno difetto, allora la pratica rischia di passare accanto ai suoi obiettivi. Non resta quindi che fare del bricolage pedagogico, costoso quanto a tempo e ad energia, in cui l’allievo impara meno, col pretesto di imparare meglio. Tra gli allievi più motivati (ovvero nelle scuole riservate ai giovani dell’elite sociale) la pratica forse potrà approdare a preservare le conoscenze sviluppando la capacità di metterle in atto. Ma tra tutti gli altri, queste conoscenze marcheranno il passo al profitto di vaghe competenze che riposeranno su poche solide fondamenta. Quelli che lavoreranno in massa nei fast-foods di domani, avranno imparato a comunicare con i clienti, ma non avranno imparato il francese e ignoreranno del tutto la letteratura. Sapranno fare senza errori un addizione, ma l’astrazione matematica gli resterà estranea. Potranno applicare la legge di Ohm, ma non capiranno cos’è un campo elettrico. E, aiutandosi con un foglio di lavoro, potranno situare i dinosauri lungo una scala temporale, ma potrebbero non avere mai sentito parlare di Karl Marx.
I nuovi programmi, in cui le conoscenze strutturali vengono relegate al secondo posto, dopo le competenze e il metodo, aprono la porta ad un’interpretazione differenziata. Le scuole frequentate dai ragazzi e dalle ragazze dell’università non interpreteranno questi programmi come le scuole dei bambini e delle bambine del popolo.
L’interpretazione dei livelli di competenza da raggiungere è, ben più che un enunciato dettagliato in materia diversificabile all’infinito. Sapere “comunicare” è un saper fare di alto livello, che esige “l’integrazione di risorse cognitive multiple nel trattamento di situazioni complesse» [PERRENOUD 1995 b]. E’ dunque una competenza. Ma la comunicazione non implica le stesse esigenze se si tratta di dibattere dell’impatto della mondializzazione con un quadro del FMI o se si tratta di chiedere «il vostro hamburger lo volete con cipolla o con ketchup?». Come si potrà impedire all’insegnamento una deriva verso un’interpretazione dualista delle competenze, prendendo come criterio il presunto destino sociale dei bambini dei quali esso è responsabile, a dire, in definitiva, la loro origine sociale? Così, l’approccio per competenze rischia di diventare un elemento ulteriore nel processo di dualizzazione della Scuola, un elemento di rinforzo per una selezione sociale gerarchizzante, alimentata da una deregolamentazione in ogni direzione.

Sapere per sapere o sapere per fare?

Il mio proposito non è quello di rifiutare ogni strumentalizzazione dei saperi. Dopo tutto, a che serve imparare bene se ciò che si impara non serve a niente? Se i saperi sono così importanti ai miei occhi, non è perché gli attribuisco un qualsiasi valore astratto o sentimentale, ma perché vi vedo un importante mezzo d’azione. Non c’è pratica che sia efficace senza teoria. I saperi danno la forza di comprendere il mondo e, inoltre, di partecipare alla trasformazione di questo mondo. Essi rappresentano uno strumento di potere. E’ d’altra parte evidente sia perché essi siano rimasti al centro delle preoccupazioni della Scuola, fintanto che questa era riservata ai giovani delle classi dirigenti. Per 150 anni nessuno si è mai preoccupato di sapere se gli studenti dei collegi e degli atenei avessero acquisito la “competenza di mobilitare le loro conoscenze nei problemi complessi e vari”. L’importante era che essi accedessero alle conoscenze al fine di disporne, all’occorrenza, per esercitare la propria autorità nel posto che avrebbero occupato nella società. Dal momento in cui l’insegnamento generale si è ampiamente aperto ai figli del popolo, ci si preoccupa improvvisamente di strumentalizzare questi saperi.
Perrenoud s’interroga: «di che avranno bisogno i giovani per affrontare il secolo che si annuncia? Di saperi, senza dubbio. Ma di saperi viventi, mobilizzabili nella strada verso il lavoro e fuori del lavoro, capaci di essere trasferiti, trasposti, adattati alle circostanze, ripartiti, ricomposti. L’idea della competenza non sostiene altro che la pratica di fare dei saperi scolastici degli strumenti per pensare e per agire» [PERRENOUD 1999]. E’ estremamente generoso. Ma il problema principale, per la maggioranza dei giovani che escono dalla Scuola di oggi, è di essere forniti di conoscenze scientifiche, storiche, sociali, tecniche, culturali e di non sapere come usarle? Oppure il problema è che essi escono dalla Scuola conoscendo poco, troppe poche cose. Sempre meno se si parla di conoscenza reale, cioè di una comprensione approfondita.
Questo sì, testimonianza sicura del fallimento della Scuola. Ma la causa non deve essere ricercata negli obiettivi dichiarati (trasmettere saperi), quanto piuttosto nella carenza delle pratiche e – i due aspetti sono indissociabili – nell’assenza dei mezzi e delle condizioni materiali per mettere in atto tali pratiche.

Conclusione

Gli obiettivi dichiarati dai sostenitori dell’approccio per competenze sono generosi. Ma nelle attuali condizioni di funzionamento della Scuola è impossibile metterli in pratica. Il ri-centramento degli obiettivi sulla capacità di «mobilitare” saperi, piuttosto che sull’acquisizione dei saperi, porta al dogmatismo pedagogico. Si verifica allora, nei fatti, un rovesciamento dei fini e dei mezzi: la metodologia – messa al lavoro dagli allievi su cantieri di problemi – non è più al servizio dell’accesso alla comprensione dei saperi, ma questi (i saperi) si trovano relegati al rango di strumenti del metodo. Tale de-qualificazione dei saperi arriva fino all’abbandono degli enunciati articolati di materia nella definizione dei programmi.
In questo modo, l’approccio per competenze, per generoso che sia nelle sue intenzioni, partecipa di un vasto movimento di deregolamentazione dell’insegnamento, ed è reclamato dagli ambienti economici. Con la scusa della flessibilità, questi assegnano alla Scuola la missione di inculcare competenze trasversali, interdisciplinari, assicurando la capacità di adattamento dei lavoratori ad un ambiente economico e tecnologico in mutazione permanente. D’altra parte, la deregolamentazione indotta dall’ “afflato artistico” che caratterizza gli obiettivi cognitivi nei nuovi programmi, favorisce lo sviluppo duale dell’insegnamento. Questo risponde ad un altro “bisogno” dell’economia: l’adeguamento dell’insegnamento all’evoluzione duale del mercato del lavoro.

Bibliografia

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Nico Hirtt est physicien de formation et a fait carrière comme professeur de mathématique et de physique. En 1995, il fut l'un des fondateurs de l'Aped, il a aussi été rédacteur en chef de la revue trimestrielle L'école démocratique. Il est actuellement chargé d'étude pour l'Aped. Il est l'auteur de nombreux articles et ouvrages sur l'école.